Eravamo in quattro all’osteria. Quattro come i semi delle carte romagnole, Cesena la nostra città, e una
bottiglia di Sangiovese accompagnava le nostre discussioni, varie e mescolate.
Al primo calice si inizia a parlare della Romagna, nostra terra meravigliosa, di quanto ha da offrire e quanto
servirebbe una realtà che sappia rappresentare al meglio tutto quello che lei ha da offrire.
Al secondo calice, di comune accordo, si decide che per far vivere una vera esperienza romagnola si devono
evidenziare le tante tradizioni di cui andiamo infinitamente fieri. Il dialetto, le sfogline, la musica, il colore, il
rispetto dei tempi e il profumo della piadina…
Il terzo calice ci aprì lo sguardo al futuro, perché il vero romagnolo è un grande innovatore, ha lo ‘sbuzzo’,
un fondamentale spirito di novità e ama la sfida, la corsa.
Al quarto calice inevitabilmente gli animi erano accesi: era nata una missione e c’è parso che pure San
Giovanni, patron di Cesena, si sia seduto al tavolo con noi, e con fare allegro ci abbia indicato la strada che
stavamo cercando: Sangiò, la Romagna rappresentata in tavola”